Jorasanko mi ha cullato con la voce della bellezza e mi ha svelato la vita del mondo. Ora torno a questo paese pronto a riversarmi nuovamente nel Grande Fiume di Fango che nutre gli angoli più riposti del tempo. Calcutta ha sciolto per me i suoi labirinti. Non ho mai abbandonato il bengalese e ho tradotto io stesso in inglese le mie poesie. Eppure posso esprimermi in tutte le lingue, vive e morte. Mi appartengono nel loro ritmo profondo e serpeggiante.
Sono un patriota, ma la mia patria è dovunque la mia mano possa stringere quella di un altro uomo, dovunque le mie orecchie possano udire un canto o una preghiera, dovunque i miei occhi possano scorgere un sorriso o un'espressione di dolore che possa essere lenita. Io stesso sono la mia casa. L'umiltà scorre in silenzio, senza attirare l'attenzione, striscia sul fondo comune dell'esistere. Essa è l'alveo del Grande Fiume.
È da quando ho compiuto diciotto anni che, dopo aver varcato le porte del sonno, mi ritrovo a vivere sempre lo stesso sogno. Sono seduto in un luogo silenzioso e buio, avvolto da una pesante nebbia. Poi, lentamente, delle lame luminose tagliano la foschia, modellando il profilo del paesaggio. Intorno a me vedo apparire alberi senza nome, colline dalla forma eccentrica, vegetazione straordinariamente florida, cascate e fiumi rigonfi e debordanti. La nebbia si dirada, si alza, viene riassorbita in questo globo luminoso che travolge ogni cosa. Il mondo si dipinge di colori che nessuna mente umana può immaginare. A questo punto inizialmente mi svegliavo. Con il passare del tempo però il sogno si riempiva di particolari. I suoni, l'acqua di una cascatella che gorgogliava, il fruscio di una pianta mossa dalla brezza diventavano più nitidi e piccoli animali facevano la loro esitante apparizione.
Ancora oggi, quando sogno, dopo che la nebbia si dirada totalmente, mi alzo e comincio a passeggiare. Oltre la prima schiera di alberi si estende una pianura tagliata a metà da un fiume. L'orizzonte è sinuoso, affollato di colline. Mentre il mio sguardo delira sotto il peso della bellezza, intravedo un bimbo avvicinarsi a me. È completamente nudo, deve avere poco più di cinque anni. Ci guardiamo reciprocamente negli occhi. I suoi ricordano il cielo notturno tempestato di stelle. Fino a qualche anno fa il mio sogno terminava qui.
Ora mi trovo nuovamente di fronte a lui. Sto sognando, lo so. Il bimbo mi prende per mano e inizia a camminare. Mi conduce lungo sentieri su cui nessun uomo potrebbe mettere piede. Indica le cose e dona loro un nome. Parla in una lingua che non ho mai sentito, eppure comprendo benissimo le sue parole. Si ferma a pochi passi dal fiume, indica il sole e lo nomina. Poi, entrambi chiudiamo gli occhi e respiriamo profondamente. La sua piccola mano abbandona la mia, eppure non sono infelice, sono un nuovo raggio di luce nell'oscurità del mondo.
Rabindranath Tagore, nome anglicizzato di Rabíndranáth Thákhur, chiamato talvolta anche con il titolo di Gurudev, (Calcutta, 6 maggio 1861 – Santi Neketan, 7 agosto 1941) è stato un poeta, drammaturgo, scrittore e filosofo indiano. Si impegnò a creare una "nuova India” moderna e indipendente, proponendosi di conciliare la cultura occidentale con quella orientale: era un profondo conoscitore della lingua inglese e tradusse lui stesso le sue opere in questo idioma. Figlio di un ricco bramino, studiò nel Regno Unito e, tornato in patria, si dedicò all'amministrazione delle sue terre e a ogni forma d'arte. In liriche destinate al canto, che egli stesso musicò e tradusse in inglese, in lavori teatrali ricchi d'intermezzi lirici, in romanzi, in novelle, memorie, saggi e conferenze Tagore affermò il proprio amore per la natura e per Dio, le proprie aspirazioni di fratellanza umana, la propria passione (anche erotica), l'attrattiva della fanciullezza.